C’è maretta nelle scuole di Palermo. I 550 insegnanti di religione della città hanno alzato gli scudi contro la Curia. Motivo: l’ufficio diocesano, ci informa Repubblica, ha chiesto loro di presentare un certificato di idoneità morale firmato dal parroco pena l’esclusione dall’incarico. Questo perché tra i portatori della parola di dio nelle aule scolastiche ce ne sarebbero alcuni che non rispettano i precetti cattolici: separati,divorziati o conviventi non possono fornire una corretta
“testimonianza di vita cristiana”. Insorge il sindacato degli insegnanti di religione, lo Snadir, secondo cui la testimonianza cristiana” è implicita nell’idoneità all’insegnamento già stabilita dalla diocesi.
Già, il punto è proprio questo. Secondo l’Intesa tra l’autorità scolastica e la
Conferenza episcopale italiana (DPR n. 751 del 16 dicembre 1985 aggiornato al 5 agosto 2002), l’insegnamento della religione cattolica nelle scuole pubbliche «deve essere impartito in conformità alla dottrina della Chiesa da insegnanti riconosciuti idonei dall’autorità ecclesiastica e in possesso di qualificazione professionale adeguata». Ora, l’autorità ecclesiastica non deve certo rendere conto allo Stato italiano – essendo un ente di uno stato terzo al quale è stata delegata la scelta dei docenti – dei criteri di idoneità.
La vicenda fa emergere due contraddizioni di diversa natura. La prima, già nota, riguarda proprio le ore di insegnamento confessionale gestite in tutto e per tutto dalla Curia (selezione del personale, programmi, libri di testo) tranne, guarda caso, per gli aspetti economici che sono a carico dello Stato.
Gli insegnanti di religione sono inseriti a pieno titolo nelle graduatorie statali (e nel libro paga relativo) senza che lo Stato stesso possa verificare la loro idoneità come fa con tutti gli altri docenti. E in caso di revoca dell’incarico – come potrebbe succedere ad alcuni degli insegnanti palermitani per uno stile di vita non conforme alla dottrina della Chiesa – restano in tutto e per tutto dipendenti statali.
La seconda mette il dito nella piaga dell’ipocrisia cattolica. E potrebbe anche non interessarci se non riguardasse, come in questo caso, la scuola pubblica.
Quanti tra quelli che si dichiarano cattolici seguono alla lettera gli insegnamenti della Chiesa?
Quanti sono quelli che vanno a messa, si confessano, fanno la comunione, non praticano sesso se non finalizzato alla riproduzione, non usano mezzi contraccettivi, non divorziano, non abortiscono, non tradiscono il coniuge, non rubano, non mentono e via dicendo?
Per saperlo, basterebbe focalizzarsi sull’aspetto riproduttivo e dare una rapida occhiata ai tassi di natalità del nostro paese a “prevalenza cattolica”. Pensare che sia così basso (circa 1,3 figli per donna – dati Istat 2011) a causa di astinenza o sterilità dei coniugi appare una patetica barzelletta ad uso e consumo della Chiesa che finge di non vedere pur di non svuotare le parrocchie. E i fedeli le sono ben grati, perché se fosse richiesto loro un comportamento coerente con i principi del cattolicesimo dovrebbero rinunciare all’appartenenza al gregge.
Che la Chiesa promulghi principi retrivi, anacronistici e inadeguati alla società contemporanea è un fatto.
Ma chi dichiara di agire in suo nome, nella vita e nel lavoro, dovrebbe prendersi carico di tutti gli oneri oltre che degli onori.
Che un cattolico abbia la possibilità, solo per la religione che professa e in barba ai principi di uguaglianza costituzionale tra cittadini, di svolgere una professione all’interno di una struttura pubblica quale la scuola è già un aberrante controsenso, ma almeno per deontologia “professionale” dovrebbe attenersi nella propria vita agli stessi principi che è chiamato a trasmettere ai suoi alunni.
Può insegnare, da convivente, che l’unica unione valida davanti a dio è quella del matrimonio (in Chiesa)?
O che la contraccezione è bandita dalla Chiesa senza avere una schiera di figli?
La diocesi di Palermo sta solo, dal suo punto di vista, rimarcando la necessità di coerenza.
E magari lo facessero tutte le diocesi: nel giro di un mese a insegnare religione rimarrebbero solo preti e suore.
E a ben spulciare nelle loro “condotte morali”, forse neanche quelli.
Chissà che a quel punto la contraddizione di una disciplina ideologica, anticostituzionale e discriminatoria, ancorché facoltativa, non esploda in tutta la sua evidenza fino a far relegare l’insegnamento della religione nei suoi luoghi deputati, ossia le parrocchie?
Cecilia M. Calamani