Nell’Italia delle enunciazioni politico-amministrative, prive di concretezza e di verità, del tipo: “Stiamo lavorando per voi”, “Non metteremo le mani nelle tasche dei cittadini”, “Tagliamo le spese della politica” e chi più ne ha, più ne metta, si adottano spesso provvedimenti inaccettabili e discutibili. Uno di questi provvedimenti è il vitalizio (o pensione) riconosciuto ai parlamentari.
E’ risaputo che la pensione viene riconosciuta ai lavoratori dipendenti e autonomi, purché, stabilisce la legge varata proprio dai parlamentari, il lavoratore abbia versato 40 anni di contributi, necessari a percepire una pensione di anzianità. Per la pensione di vecchiaia, invece, sono necessari minimo 20 anni di contributi, altrimenti non si ha diritto a nessun emolumento e si perdono i contributi versati.
Quindi, il lavoratore (comune mortale) costruisce la sua pensione con sufficienti contributi versati, in funzione dei quali viene calcolato l’importo pensionistico che potrà ricevere. Ma in palese spregio dei comuni lavoratori, i parlamentari si sono dati delle regole diverse. Vediamone alcune sostanziali:
1) Per svolgere il suo mandato, il parlamentare non firma un contratto di lavoro dipendente o autonomo, a tempo determinato o indeterminato, full-time o part-time, né viene assoggettato a obblighi e doveri che un contratto di lavoro comporta. Pertanto non esistono i presupposti per avere un vitalizio. Tra l’altro, è presumibile che ogni parlamentare abbia in corso di maturazione una pensione da lavoro dipendente o autonomo derivante dalla sua attività extraparlamentare;
2) Viene violato il principio de “La legge è uguale per tutti”. Infatti, mentre il parlamentare può andare in pensione minima dopo soli 5 anni di mandato, al lavoratore ne vengono chiesti 20;
3) Altra nota dolente, è che la pensione dei parlamentari è quasi tutta a carico dei contribuenti, anche dei pensionati che percepiscono meno di 1.000 euro al mese. Vediamo perché considerando l’esempio di 5 anni di mandato per un vitalizio di 3.000 euro al mese per 20 anni. Il parlamentare percepisce una pensione per un totale di 720.000 euro in 20 anni. Sottraendo i 60.000 euro circa, che versa in 5 anni, alla Camera o al Senato, la cifra restante di 660.000 euro è a carico dei contribuenti;
4) Usciamo per un attimo dalla pensione minima di 3.000 euro al mese per fare un altro esempio eclatante di danno ai contribuenti, quello della ex presidente della Camera, Irene Pivetti. Come riportato da Affari Italiani del 16.03.2009, Irene Pivetti, nel 2013, a 50 anni, dopo 9 anni a Montecitorio inizierà a percepire una pensione di 6.203 euro mensili. Stando alle aspettative di vita media delle donne, ipotizziamo che la Pivetti percepirà la pensione per 35 anni. Esattamente: 6.203 euro x 420 mesi = 2.605.260 euro, meno 108.000 euro versati alla Camera in nove anni, la cifra restante di 2.497.260 euro è a carico dei contribuenti.
Si tratta dell’ennesima anomalia vergognosa, che l’Idv ha tentato di correggere con una proposta di legge, discussa in parlamento nel settembre del 2010. Purtroppo la votazione è stata deludente: 498 i NO e solo 20 i SI. Questo conferma che i politici non sono ancorati solo alle poltrone ma anche ai benefici economici non sempre legittimi.
Se i 1000 euro che i parlamentari versano ogni mese nella “Cassa” del vitalizio di Camera o Senato, venissero versati all’Inps, i 3.000 euro al mese di vitalizio i parlamentari li vedrebbero col binocolo.
Enzo Mellano