Nonostante i grandi sforzi impiegati, la presa della chiesa cattolica diminuisce progressivamente:
calo delle c.d. vocazioni, aumento dei matrimoni civili, percentuale dei praticanti sempre più bassa, diminuzione di coloro che si avvalgono dell’insegnamento dell’ora di religione.
Prendiamo atto di questi fenomeni, ai quali corrispondono sempre maggiori spettacolarizzazioni di massa, magari a spese pubbliche, come avviene a Verona per il convegno ecclesiale nazionale.
Laicità vorrebbe che l’opera di indottrinamento e di reclutamento da parte di una confessione religiosa non avvenisse a spese dello Stato. Per attenuare e addolcire, si parla di educazione o di formazione religiosa.
Ma quando siamo di fronte a bambini e a giovani appare più realistico parlare di indottrinamento e reclutamento.
In Italia, in base al famigerato Concordato, abbiamo l’insegnamento della religione cattolica nelle scuole pubbliche con insegnanti scelti dai vescovi e pagati dallo Stato.
Gli insegnanti di religione cattolica sono di fatto funzionari della chiesa cattolica, anche se giuridicamente sono funzionari dello Stato, anzi messi in ruolo con una corsia preferenziale.
La legge per l’immissione in ruolo degli insegnanti di religione è stata approvata nell’agosto del 2003 durante il governo Berlusconi, con l’appoggio di Margherita e Udeur.
È un altro 8 per mille che lo Stato dà alla chiesa cattolica, anzi di più dell’8 per mille. L’8 per mille dato alla chiesa cattolica corrisponde a circa un miliardo di euro. Lo stipendio diretto e indiretto per i 35.000 insegnanti di religione passa di molto il miliardo di euro
all’anno. Lo stipendio ai professori di religione è un regalo indiretto alla chiesa cattolica.
Lasciamo da parte, poi, i diritti degli insegnanti di religione che non devono essere divorziati o madri nubili o essere in analoghe situazioni peccaminose.
Il mantenimento pubblico di questo esercito di propagandisti della fede non basta. In Italia c’è, poi, il finanziamento pubblico della scuola cattolica, pardon, scuola privata.
Ma in Italia dire scuola privata significa dire scuola cattolica. La stragrande maggioranza delle
scuole private italiane, infatti, o é direttamente gestita da un qualche ordine religioso o si ispira comunque all’educazione cattolica.
In materia l’articolo 33 della nostra Costituzione è diventato carta straccia.
Ricordate?
“Enti e privati hanno il diritto di istituire scuole ed istituti di educazione, senza oneri per lo Stato”. Alla scuola privata italiana arriva un fiume di denaro appartenente ai contribuenti attraverso mille rigagnoli il cui percorso è arduo seguire: contributi statali, finanziamenti a singoli progetti, buoni scuola alle
famiglie, sussidi regionali e di altri enti locali.
A livello statale i principali canali attraverso cui le scuole «non statali» ricevono denaro pubblico sono:
i sussidi diretti alle scuole sotto forma di contributi per la gestione delle scuole (dell’infanzia e primarie) e di finanziamenti di progetti «finalizzati all’elevazione di qualità ed efficacia delle offerte formative» (per le scuole medie e superiori) e i contributi alle famiglie (i cosiddetti buoni scuola) per le scuole di ogni ordine e grado.
Nel finanziamento alla scuola privata, cioè cattolica, non c’è da fare molta distinzione a seconda dell’orientamento politico, di centro-destra o di centro-sinistra.
Nel 1999 l’allora ministro della Pubblica istruzione, Luigi Berlinguer, emanava due decreti
(dm 261/98 e dm 279/99) poi coordinati in un unico testo che aveva per esplicito oggetto
la «concessione di contributi alle scuole secondarie legalmente riconosciute e pareggiate».
Con l’approvazione della legge sulla parità scolastica, la n. 62 del 2000 (siamo all’epoca del governo D’Alema) le scuole private entrano a far parte a pieno titolo del sistema di istruzione nazionale e pertanto da questo momento in poi devono essere trattate «alla pari», anche sul piano economico.
La legge istituiva di fatto i buoni scuola statali, per i quali stanziava 300 miliardi annui di vecchie lire a decorrere dal 2001. Il dm 27/2005 della ministra Letizia Brichetto in Moratti non parla più di «concessione di contributi» ma esplicitamente di «partecipazione alle spese delle scuole secondarie
paritarie».
Per il 2005 i «contributi alle scuole non statali» (circolare ministeriale n. 38 del 22 marzo 2005)
ammontano complessivamente a poco meno di 500 milioni e 500 mila euro.
Come se non bastasse per il 2005 sono stati finanziati con un milione di euro progetti di
«formazione del personale preposto alla direzione delle scuole paritarie» (circolare n. 77
del 14 ottobre 2005).
I cosiddetti buoni scuola sono dei contributi destinati alle famiglie a parziale o totale copertura delle spese di iscrizione dei figli alle scuole. Il buono scuola statale per il 2005 è stato di 353 euro per l’iscrizione alle scuole primarie paritarie, 420 euro per l’iscrizione alle scuole medie paritarie e di 564 per l’iscrizione al prima anno delle scuole superiori paritarie.
Le iscrizioni alle scuole cattoliche che, almeno qui nel Veneto, stavano subendo una progressiva diminuzione, grazie ai buoni scuola hanno invertito la tendenza.
I buoni scuola costituiscono un finanziamento indiretto delle scuole cattoliche.
Poiché la legge sulla parità scolastica non fa alcun cenno all’eventuale incompatibilità dei buoni scuola statali con quelli regionali, si è creato un sistema a doppio regime: nelle regioni che lo prevedono, le famiglie possono ricevere sia il buono scuola nazionale che quello regionale.
È il caso, per esempio, del Veneto, regione antesignana in fatto di buoni scuola.
Con la legge regionale n. 1 del 2001 il Veneto ha istituito i buoni scuola da destinare alle famiglie degli studenti iscritti alle scuole statali e paritarie. La regione stabilisce però che «il contributo può essere concesso solo qualora la spesa sostenuta sia uguale o superiore a euro 200».
Poiché le tasse di iscrizione alle scuole statali non superavano di solito quella cifra, l’intero ammontare del fondo messo a disposizione dalla regione andava di fatto nelle tasche delle famiglie che decidevano di iscrivere i propri figli alle scuole private, che ricevono, a seconda del reddito e del tipo di scuola, dai 310 ai 1.300 euro cumulabili con il buono statale.
Gli oratorî parrocchiali sono sempre stati uno strumento per il reclutamento infantile e giovanile. Alcuni o molti di noi, da piccoli, hanno frequentato l’oratorio. L’oratorio era percepito come un luogo in cui si andava a giocare e dove si incontravano altri bambini. Il periodo era quello delle elementari, qualche volta si prolungava alle medie. Poi, per lo più, alle superiori c’era la fuga dalla parrocchia.
Qualche volta appariva in cortile il prete che faceva interrompere il gioco perché c’era una qualche riunione, che iniziava con la preghiera e un coro che parlava del Bianco Padre che da Roma ci guidava e finiva con “al tuo cenno, alla tua voce un esercito all’altar”.
L’oratorio non era un servizio per i bambini o per le famiglie, era uno strumento per il reclutamento infantile. Le cose sono sempre state chiare. Poi, è intervenuta l’ipocrisia della legge.
Nella passata legislatura venne fatta addirittura una legge per gli oratorî, non tanto per disciplinarli,
che non è compito dello Stato, quanto per foraggiarli, che non sarebbe neppure un compito dello Stato laico. Il 1° agosto del 2003 venne approvata la legge sugli oratorî, sul modello di alcune leggi regionali già introdotte dalle giunte di centro-destra di Lazio, Lombardia, Abruzzo, Piemonte e Calabria.
Attraverso questa legge «lo Stato riconosce e incentiva la funzione educativa e sociale svolta nella comunità locale, mediante le attività di oratorio o attività similari, dalle parrocchie e dagli enti ecclesiastici della Chiesa Cattolica, nonché dagli enti delle altre confessioni religiose con le quali lo Stato ha
stipulato un’intesa». Si aggiungono sempre le altre confessioni religiose come foglia di fico
per coprire questo scandaloso privilegio costruito per la chiesa cattolica.
Questo riconoscimento implica innanzitutto che lo Stato, le regioni e gli enti locali possano concedere in comodato (cioè a titolo completamente gratuito) beni mobili e immobili di loro proprietà. Inoltre la legge prevede 1’esenzione dall’Ici dei locali dell’oratorio quali «opere di urbanizzazione secondaria».
Il mancato introito da parte dei comuni di questi fondi, calcolato dalla legge pari a 2,5 milioni di euro annui, viene coperto dallo Stato.
Ulteriori e più specifiche agevolazioni o finanziamenti da prevedere ai fini del riconoscimento delle attività dell’oratorio sono rimandati dalla legge nazionale alle Regioni.
La legge ha ricevuto un consenso bipartisan da parte di tutte le forze politiche, a eccezione di Comunisti italiani e Rifondazione. Siamo di fronte a un esempio tipico della omertosa sudditanza del mondo politico nei confronti della chiesa cattolica.
Alla Camera, per la precisione, la legge è stata approvata con i voti della destra e di gran parte della
sinistra (404 voti favorevoli, 19 voti contrari di R.C. e Pd C.I, 14 astenuti compreso il gruppo dello SDI). Nell’occasione DS e Verdi hanno sottolineato come la legge «rispetti i diversi orientamenti filosofici, culturali e religiosi della società» e il «principio di laicità dello Stato».
Il senatore della Margherita Pierluigi Petrini ha dichiarato che «il provvedimento svolge una funzione sociale non solo nei confronti dei soggetti considerati deboli, in grave stato di necessita ed emarginazione, ma si rivolge alla comunità nel suo insieme, partendo dalla considerazione che ciascuno di noi può attraversare nel corso della vita momenti difficili» (Ansa, 15/5/2003).
Secondo la deputata dei Verdi Luana Zanella si tratta invece di «una norma innovativa per valorizzare quanti nel territorio intervengononella promozione umana e sociale» (Ansa, 19/6/2003).
In Puglia i finanziamenti agli oratori hanno dato luogo a un filone giudiziario. Durante la campagna elettorale per le regionali del 2005 l’arcivescovo di Lecce, Cosmo Francesco
Ruppi, avrebbe offerto – secondo l’accusa – appoggio politico all’allora presidente della Regione Puglia, Raffaele Fitto, in cambio dell’impegno di quest’ultimo a far approvare dalla Regione Puglia il provvedimento con il quale venivano finanziati gli oratorî della chiesa cattolica pugliese.
A tal fine, la giunta Fitto approvò due delibere per complessivi 74 milioni di euro: la prima, l’11 marzo 2005, quindici giorni prima delle elezioni regionali; e la seconda il 15 aprile 2005, due settimane dopo la sconfitta elettorale, mentre Fitto era ancora in carica per l’ordinaria amministrazione, in attesa dell’insediamento del nuovo presidente Nichi Vendola.
Veniamo a un altro capitolo di funzionari della chiesa cattolica stipendiati dallo Stato in
base al famigerato concordato.
L’art. 11 del concordato stabilisce al primo comma che “La Repubblica italiana assicura che l’appartenenza alle forze armate, alla polizia, o ad altri servizi assimilati, la degenza in ospedali, case di cura o di assistenza pubbliche, la permanenza negli istituti di prevenzione e pena non possono dar luogo ad alcun impedimento nell’esercizio della libertà religiosa e nell’adempimento delle pratiche di culto dei cattolici”.
Fin qui niente da ridire. Si tratta di un’esplicazione particolare della libertà religiosa garantita dalla
Costituzione, indipendentemente dal Concordato.
Sul comma secondo, però, c’è da ridire. Stabilisce:
“L’assistenza spirituale ai medesimi è assicurata da ecclesiatici nominati dalle autorità italiane competenti su designazione dell’autorità ecclesiastica e secondo lo stato giuridico, l’organico e le modalità stabiliti d’intesa fra tali autorità”. Siamo di fronte alla tipica ipocrisia del linguaggio di loro eminenze. La propaganda religiosa diventa assistenza spirituale. Uno potrebbe pensare, laicamente, che l’assistenza spirituale sia l’assistenza psicologica, ma la laurea in teologia non è sicuramente un titolo che garantisca una preparazione specifica per aiutare nel benessere psichico.
Comunque, non è compito dello Stato laico assicurare l’assistenza religiosa a chicchessia.
La chiesa cattolica ha preteso e pretende che ci siano suoi funzionari pagati dallo Stato perché facciano propaganda, pardon assistenza religiosa.
I cappellani sono funzionari della chiesa cattolica pagati dallo Stato italiano per perseguire finalità proprie della chiesa cattolica.
Ci sono, poi, varie convenzioni per stabilire numero e retribuzione dei cappellani militari, nella Polizia di Stato, nelle carceri, negli ospedali. Non so se ci siano anche per i vigili del fuoco, per i vigili urbani e per la nettezza urbana.
Per la Polizia di Stato c’è una convenzione tra ministro dell’interno e Cei. Nella Polizia di Stato c’è un cappellano per ogni questura.
Poi ci sono cappellani presso alloggi collettivi di servizio e presso istituti di istruzione.
Al vertice si trova il cappellano coordinatore nazionale.
Il cappellano “cura la celebrazione dei riti liturgici, la catechesi, specie in preparazione ai sacramenti, la formazione cristiana, nonché l’organizzazione di ogni opportuna attività pastorale e culturale”, dice la convenzione tra lo Stato, che dovrebbe essere laico, e la chiesa cattolica.
In modo particolare il cappellano cura la celebrazione annuale della festa di San Michele Arcangelo, questa fantasiosa entità che la chiesa ha posto a protezione della Polizia di Stato.
Per le Forze armate c’è una convenzione tra ministro della difesa e Cei. I cappellani militari sono circa 200 e fanno capo all’ordinario militare che ha il grado di vescovo.
Per le carceri c’è una convenzione tra ministro di grazia e giustizia e Cei. Alcune centinaia sono anche i cappellani nelle carceri.
Per gli ospedali ci sono protocolli d’intesa tra il presidente della Regione o l’assessore alla
sanità e la Conferenza episcopale regionale o interregionale. Il protocollo d’intesa della regione Lombardia, ad esempio, prevede che per ogni ente gestore (con questo termine si intendono le «aziende sanitarie locali, le aziende ospedaliere e, in generale, tutte le altre
strutture sanitarie pubbliche e private accreditate») «deve essere previsto almeno un assistente religioso».
In strutture con più di 300 posti letto gli «assistenti religiosi» saranno due.
Oltre i 700 posti letto saranno uno ogni 350.
Quanto alla copertura degli oneri finanziari del servizio, l’articolo 7 comma 2 dell’Intesa afferma esplicitamente che «gli assistenti religiosi sono assunti dall’ente gestore, su designazione dell’ordinario diocesano, con contratto di natura indeterminata, a tempo pieno o parziale».
Inoltre l’ente gestore deve assicurare «spazi idonei per le funzioni di culto (chiesa o cappella e sacrestia), per l’attività religiosa relativa ai servizi mortuari, ad uso ufficio, per gli assistenti religiosi ed i loro collaboratori, con relativi arredi, attrezzature ed accessori», e mettere a disposizione degli assistenti religiosi «un alloggio, adeguatamente arredato, di regola ubicato all’interno della struttura di ricovero o comunque comunicante con la stessa» (rispettivamente commi 1 e 2, art. 10). Infine, «le usuali spese di culto, nonché quelle di conservazione degli arredi, suppellettili e attrezzature occorrenti per il
funzionamento del servizio, la manutenzione ordinaria e straordinaria degli spazi in uso, le pulizie (escluse
quelle dell’alloggio, se esterno alla struttura), nonché le spese di illuminazione e riscaldamento di tutti i locali adibiti al servizio di assistenza religiosa, sono a carico dell’ ente gestore» (comma 4, art. 10).
A ogni legge finanziaria i comuni si lamentano per i tagli che vengono operati nei loro confronti. Le risorse dei comuni sono sempre insufficienti rispetto ai loro compiti.
Se i comuni non fossero obbligati a fare regali alla chiesa cattolica forse le cose andrebbero meglio.
Alle volte, troppo spesso, i comuni (come pure le province e le regioni) fanno regali per propria scelta.
I soldi che vanno alla chiesa cattolica sono servizi sottratti alle fasce più povere dela popolazione. Forse, è per questo che talora la chiesa cattolica si definisce chiesa dei poveri.
Abbiamo visto la scandalosa esenzione dell’Ici, regalo indiretto di miliardi di euro.
Vediamo, adesso, il diretto regalo, obbligatorio per legge, di altri miliardi di euro con il
meccanismo degli oneri di urbanizzazione.
Gli oneri di urbanizzazione sono stati introdotti dalla legge legge 28 gennaio 1977, n. 10,
c.d. “legge Bucalossi”.
La materia è oggi regolata dal decreto legislativo 6 giugno 2001, n. 380, contenente il Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia.
Gli oneri di urbanizzazione sono contributi, dovuti ai Comuni, da coloro che realizzano interventi di costruzione e di trasformazione edilizia. Il rilascio del permesso di costruire comporta la corresponsione di un contributo commisurato all’incidenza degli oneri di urbanizzazione nonché al costo di costruzione.
Gli oneri di urbanizzazione sono dovuti a titolo di partecipazione alle spese che i Comuni sostengono per l´urbanizzazione del loro territorio.
Si distinguono in oneri di urbanizzazione primaria e secondaria. Gli oneri di urbanizzazione primaria sono relativi a questi interventi: strade residenziali, spazi di sosta
o di parcheggio, fognature, rete idrica, rete di distribuzione dell’energia elettrica e del gas, pubblica illuminazione, spazi di verde attrezzato.
Gli oneri di urbanizzazione secondaria sono relativi ad altri interventi: asili nido e scuole materne, scuole dell’obbligo nonché strutture e complessi per l’istruzione superiore all’obbligo, mercati di quartiere,
delegazioni comunali, chiese e altri edifici religiosi, impianti sportivi di quartiere, aree verdi di quartiere, centri sociali e attrezzature culturali e sanitarie.
I comuni sono obbligati a versare l’8 per cento (si badi, non l’8 per mille) degli oneri ricevuti per l’urbanizzazione secondaria per le chiese. Cito per tutti il caso della legge regionale lombarda n. 12 del 2005 che, in un apposito articolo, obbliga i Comuni a versare l’8 per cento dei proventi degli oneri di urbanizzazione secondaria agli “enti
istituzionalmente competenti in materia di culto della Chiesa Cattolica”.
La possibilità che altre confessioni possano accedere ai finanziamenti previsti è limitata dalla richiesta di
«una presenza diffusa, organizzata e stabile nell’ambito del comune» e dai criteri di ripartizione, basati sulla «consistenza e incidenza sociale delle rispettive confessioni» (artt. 70 e 72).
L’obbligo esiste in tutte le regioni, per tutti i comuni d’Italia. Ogni anno alcuni miliardi di euro passano dalle casse comunali a quelle della chiesa cattolica, anche là dove c’è carenza di asili nido e di scuole materne, che pure riguardano l’urbanizzazione secondaria, mentre non c’è carenza di chiese cattoliche, anzi c’è abbondanza. Ormai in Italia il numero delle chiese è eccessivo rispetto al numero di cittadini che le frequentano e non c’è più bisogno di costruirne ancora.
Molte rimangono chiuse il maggior numero dei giorni della settimana, del mese o dell’anno.
Da notare che anche quelle non usate o poco usate sono esenti dall’Ici.
Alcune vengono aperte un giorno all’anno per la festa del santo al quale sono dedicate.
Basterebbe nella finanziaria un piccolo comma per disporre che quest’obbligo è abrogato e i comuni avrebbero più disponibilità, o meno carenza, per soddisfare bisogni collettivi veri e più importanti.
Credo che questo 8 per cento sia ben più pesante dell’8 per mille. Non mi risulta che siano mai stati fatti i conti di quanto sia l’ammontare complessivo in Italia o che,
comunque, sia stato diffuso attraverso i mezzi di comunicazione.
L’8 per mille è stato introdotto a seguito del concordato del 1984 e frutta alla chiesa cattolica circa un miliardo di euro all’anno; è il più noto dei canali attraverso i quali il denaro pubblico va a finanziare questa confessione religiosa.
Più precisamente, l’8 per mille è disciplinato dalla legge 222/1985, che dà esecuzione al concordato peggiorando gli obblighi finanziari dello Stato e migliorando i vantaggi economici della chiesa cattolica rispetto al precedente concordato.
Prima di questa legge lo Stato pagava lo stipendio al clero diocesano cattolico. Se avesse continuato così, diminuendo il clero (come sta di anno in anno diminuendo) sarebbe diminuito anche il peso economico per lo Stato.
Con il Concordato del 1984 si è passati dal pagamento dello stipendio ai singoli preti al finanziamento della chiesa cattolica italiana in quanto tale.
Per stare nel concreto, della somma che la Cei riceve con l’8 per mille neppure il 40% va per il sostentamento del clero.
La Cei fissa annualmente il reddito mensile minimo per tutti i sacerdoti diocesani. Se non
vi arrivano con i propri mezzi, la Cei integra con i proventi dell’8 per mille.
Nel 1999 3.200 preti sono stati autosufficienti, solo 103 sono stati a pieno carico della Cei, 36.509 hanno
ricevuto un’integrazione.
Perché ai preti cattolici deve essere garantito un reddito mensile minimo e agli altri cittadini italiani no? È questa la sana laicità di cui parla Ratzinger?
L’otto per mille (OPM) fu ideato dalla Commissione paritetica chiamata a stilare la bozza della legge che doveva regolamentare le questioni economiche e finanziarie fra le Parti.
La delegazione cattolica era capeggiata da mons. Nicora, poi vescovo di Verona; attualmente è cardinale e presiede l’Apsa (Amministrazione del patrimonio della Sede apostolica), il secondo ufficio finanziario del Vaticano. Viene dopo lo IOR, reso famoso da Marcinkus e dai suicidi di Sindona e Calvi.
L’unico scopo dell’OPM è quello di garantire il finanziamento statale alla Chiesa cattolica come tale.
A tanto non si era spinto il Concordato del 1929 che, pur riconoscendo a questa numerosissimi privilegî non la finanziava direttamente, ma si limitava a pagare lo stipendio (congrua) ai preti titolari di una parrocchia.
Molti credono, con la propria firma, di dare alla chiesa cattolica l’8 per mille dell’Irpef che pagano allo Stato. Non è così. Il singolo contribuente non dà niente alla chiesa cattolica. Dice la legge che una quota pari all’otto per mille dell’imposta sul reddito delle persone fisiche è “destinata, in parte, a scopo di interesse sociale o di carattere umanitario a diretta gestione statale e, in parte, a scopo di carattere religioso a diretta gestione della Chiesa cattolica”.
Questa legge, che cozza contro la laicità dello Stato, affida alla chiesa cattolica la gestione di una quota di un’imposta statale. La quota è proporzionata alle scelte espresse: “In caso di scelte non espresse da parte dei contribuenti, la destinazione si stabilisce in proporzione alle scelte espresse”.
Con questo meccanismo abbiamo che neanche il 40 per cento dei contribuenti firma la destinazione dell’8 per mille e tuttavia alla chiesa cattolica va più dell’88 per cento della torta.
Di anno in anno diminuisce la quota che va allo Stato. Ed è comprensibile questa poca fiducia nello Stato. Si fa di tutto per screditare lo Stato, evidentemente per avvantaggiare la chiesa cattolica. Si è passati dal 14,43% delle dichiarazioni del 1997 all’8,65% di tre anni fa.
Dice la legge che lo Stato dovrebbe destinare la propria quota “per interventi straordinari per fame nel mondo, calamità naturali, assistenza ai rifugiati, conservazione beni culturali”. Invece, non è così.
Ad esempio, le cosiddette “missioni di pace” in Albania e nel Kosovo furono finanziate coi soldi dell’8 per mille statale del 1999, 2000 e 2001.
La finanziaria 2004 ha scippato per tre anni all’8 per mille statale 80 milioni di euro annui.
Nel 2004 lo Stato ha ricevuto circa 100 milioni di euro.
Detraendo gli 80 milioni di euro trasferiti al bilancio generale, rimangono 20 milioni di euro. Di questi 20 milioni di euro il 44,64%, cioè quasi la metà, è andato alla conservazione dei beni culturali legati al culto
cattolico.
Questa situazione è poco nota, ma sembra fatta apposta per dissuadère i contribuenti laici a firmare per lo Stato. L’uso dell’8 per mille dello Stato a favore delle Confessioni religiose, che già usufruiscono di un loro 8 per mille è irrispettoso nei confronti dei contribuenti che hanno scelto esplicitamente lo Stato al posto, appunto, delle Confessioni religiose.
La quota dell’8 per mille dello Stato viene destinata con decreto del Presidente del consiglio dei ministri.
Nel decreto apparso sulla Gazzetta Ufficiale del 26 gennaio 2005 era possibile leggere, ad esempio, queste destinazioni dell’8 per mille statale: Pontificia università Gregoriana di Roma (370 mila euro); curia generalizia Casa di Santa Brigida, Roma (400 mila euro); seminario vescovile di Fiesole (200 mila euro); venerabile confraternita Santa Maria della Purità, Gallipoli, Lecce (300 mila euro); Opera preservazione della fede, Ventimiglia, Imperia (420 mila euro); Opera Pia Casa Regina Coeli, Napoli (40 mila euro); Associazione volontari per il servizio internazionale, Forlì (202.941 euro). L’ Avsi è un’organizzazione non governativa aderente alla Compagnia delle opere, il «braccio economico» di Comunione e liberazione.
Otto per mille, esenzione Ici, otto per cento degli oneri di urbanizzazione secondaria, mantenimento dei funzionari e propagandisti della chiesa cattolica sotto forma di insegnanti di religione, cappellani militari, carcerari, ospedalieri, finanziamento degli oratori, finanziamento della scuola cattolica sono tutti espedienti con i quali lo Stato italiano toglie ad atei, agnostici, indifferenti religiosi, non praticanti, miliardi di euro per
regalarli alla chiesa cattolica.
Tutto in base al Concordato o a varie leggi ad ecclesiam.
Poi, vi sono migliaia e migliaia di atti amministrativi dello Stato, delle regioni, delle province e dei comuni che danno altri miliardi di euro alla chiesa cattolica.
Il tutto ha la dimensione di una manovra finanziaria
[Modificato da ReteLibera 22/08/2011 19:11]